La (s)fortuna critica di Panzini

Fra le due guerre non ci fu un altro scrittore che ebbe lo stesso successo di Panzini. Ma poco dopo la morte...

di Alessandro Lucchi


Non possiamo non convenire con Tommaso Scappaticci, autore nel 2001 dell'ultimo studio sistematico sull'intera opera del nostro scrittore, quando intitola il suo libro “il caso Panzini” per porre l'accento sulla singolare sorte di un artista, la cui “bibliografia critica nel periodo tra le due guerre è più ricca di quella che possa vantare qualunque altro scrittore italiano e che annovera i nomi più noti della cultura del tempo, senza distinzioni di carattere estetico o ideologico”, passato da un più che ragguardevole successo in vita ad uno sconsolante oblio solo qualche decennio dopo la morte.
La storia della fortuna critica di Panzini può essere valutata come una cartina di tornasole dello stato delle lettere e della cultura italiane nei confronti di quelle internazionali, tanto che in certi momenti la stima quasi unanime accordata ad uno scrittore tradizionalista come Panzini può apparire un segnale di una certa arretratezza e di scarsa sensibilità estetica verso le avanguardie artistiche europee; o forse questo fenomeno è interpretabile come un'orgogliosa difesa delle proprie peculiarità e del proprio glorioso passato.
L'evolversi del giudizio, e dell'interesse, della critica riguardo Panzini, che peraltro grossomodo ricalca il percorso di quello del pubblico, può essere suddiviso, semplificando e limando le inevitabili gradazioni, in tre fasi: 1) l'assoluto anonimato degli inizi, 2) il cospicuo consenso che parte dagli anni immediatamente antecedenti il primo conflitto mondiale e termina poco dopo la morte, 3) il definitivo accantonamento e la catalogazione, o forse emarginazione, tra i “minori”.
Nella prima e oscura fase di apprendistato, che possiamo considerare la faticosa ascesa dall'isolamento alla fama, Panzini, in un periodo dominato dal D'Annunzio e dalla narrativa verista e positivista, stentò a trovare un pubblico fedele ed appassionato. Nonostante questo stentato inizio, non mancarono comunque eminenti personalità pronte a segnalare benevolmente il lavoro di Panzini: Gaetano Negri, sindaco di Milano dal 1884 al 1889 e successivamente deputato e senatore del Regno d'Italia, e soprattutto il grande Luigi Capuana che scrisse una favorevole recensione alle quattro novelle, tra cui La cagna nera, contenute nel volume Gli ingenui.
L'anno della svolta fu il 1910 quando, in concomitanza con l'uscita di uno dei titoli fondamentali della sua bibliografia (Le fiabe della virtù), venne pubblicato il saggio dell'amico Renato Serra che cominciò a stabilire delle categorie per meglio comprendere le diverse dinamiche dell'arte panziniana. Il letterato cesenate, per primo, tracciò un profilo generale del nostro scrittore, completo di dettagli biografici utili per definire il background esistenziale dal quale Panzini attinse l'ispirazione per i suoi primi, e in buona parte autobiografici, lavori. Serra notò che l'origine, l'amarezza e lo scetticismo che caratterizzano la produzione panziniana, furono originati dal contrasto tra “natura e destino”; mentre la prima infatti fu benigna nell'elargire allo scrittore un animo nobile e sensibile, all'altezza di “conversare con gli spiriti magni”, una sorte infida, unita alle particolari contingenze storico-ambientali, gli giocò un brutto tiro riservandogli il gramo mestiere d'insegnante ad una “turba di fanciulli petulanti”. Serra sottolineò pure la rilevanza dell'insegnamento del Carducci (professore di Panzini all'università di Bologna) nel formare quella coscienza civile e quella concezione morale ed eroica dell'esistenza che si ritrova nell'intera opera di Panzini.
Nello stesso anno Emilio Cecchi scrisse sulla storica rivista “la Voce” di Giuseppe Prezzolini un articolo, dallo stile prezioso e ricercato, che rappresenta una vera e propria esaltazione della poetica panziniana.
L'interesse dei letterati “vociani”, infatti oltre a Cecchi e a Prezzolini si occuperanno in seguito di Panzini anche gli scrittori Giovanni Papini e Giovanni Boine, il poeta Clemente Rebora e il critico Giuseppe De Robertis, non è affatto da considerarsi casuale, ma è bensì da ritenere un significativo, e quasi necessario, incontro tra due estetiche per diversi versi affini; infatti la rivista, nata da poco più di un anno all'epoca dell'articolo di Cecchi, aveva tra le sue finalità quella di opporsi all'irruente dilagare del dannunzianesimo, allora all'apice della sua parabola, proponendo e valorizzando una letteratura scevra delle finzioni e dell'ostentato sensazionalismo nelle situazioni narrative e del ridondante estetismo nella forma, prediligendo un'arte intimista, attenta ai risvolti morali del comportamento umano e alle sfumature psicologiche, che spesso trovava naturale esprimersi e manifestarsi attraverso il frammento autobiografico, optando così per la concisione e la parsimonia stilistica. La dura critica ai costumi e alla corruzione della società contemporanea compiuta da Panzini, con conseguente anelito ad uno stile di vita più sobrio e dignitoso, insieme alla “fede nella verità” e ad un medesimo senso religioso “dei fatti e delle cose”, costituirono altri nuclei tematici che non avrebbero potuto non guadagnarsi le simpatie del circolo “vociano”.
Dopo questa “scoperta”, e per una trentina d'anni, l'opera di Panzini attirò su di sé le attenzioni, il più delle volte benevole quando non entusiaste, dei nomi più prestigiosi della letteratura italiana, dai “colleghi” scrittori (Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Federico Tozzi, Eugenio Montale, Curzio Malaparte), alla critica più importante ed influente (Luigi Russo, Ernesto Giacomo Parodi, Attilio Momigliano, Pietro Pancrazi, Adriano Tilgher, Giacomo Debenedetti, Goffredo Bellonci) che con i loro numerosi contributi stabilirono quelle categorie ermeneutiche (ulissismo, maniera, bozzettismo, umorismo, scetticismo ecc.) che con ogni probabilità condizionarono gli esiti posteriori della letteratura panziniana.
Piero Gobetti, insieme a Gramsci il più feroce stroncatore del nostro scrittore, condannò aspramente Panzini, e con lui il suo sodale editore Treves, poiché vedeva in lui uno dei protagonisti di quella massificazione culturale, sorta con l'industrializzazione dell'editoria, che, guardando prima al profitto che all'esito artistico, aveva provocato un avvilente degrado nella qualità letteraria delle pubblicazioni.
Benedetto Croce, sebbene abbia biasimato implacabilmente le peregrinazioni nella storia del tipo de La vita di Cavour, si dimostrò più indulgente di Gobetti e concedette a Panzini il merito di aver lasciato, nelle occasioni in cui riusciva a risolvere i suoi laceranti conflitti interiori ricomponendoli in una superiore armonia compositiva, qualche momento di vera e sincera ispirazione.
Il successo che Panzini raggiunse in quegli anni ce lo testimonia un aneddoto di Giuseppe Petronio, che, nel corso del suo intervento al convegno bellariese del 1983, racconta che un'istituzione culturale romana - Le stanze del libro - nei primi anni '30 bandì un concorso per saggi su narratori italiani del Novecento. Lo stesso Petronio si piazzò al secondo posto con un saggio su Panzini, sopravanzato solo da un giovane studioso, il quale anch'egli aveva scelto il nostro scrittore come oggetto del suo elaborato!
La fama di Panzini resistette ancora qualche anno dopo la morte, avvenuta nel 1939, come attestano le due raccolte di romanzi pubblicate, nel 1939 e nel 1941, da Mondatori nella collana “Omnibus”, una sorta di “meridiani” antelitteram.
L'ultima celebrazione di Panzini l'effettuò Luigi Russo nel discorso tenuto a Rimini in occasione del decennale della morte dello scrittore, in cui salutò, non senza una sentita partecipazione, Panzini come “l'ultimo umanista-poeta”. Per il critico il merito maggiore di Panzini, nonché la ragione per cui fu amato da molti giovani letterati, fu quello di aver assolto nel corso di tutta la sua attività di scrittore e saggista al compito di orgoglioso e solitario custode della tradizione classica, fedele al loro stile e ai loro ideali; un'operazione coraggiosa ed impopolare, sottolineò il Russo, in tempi in cui si esigeva dall'artista un forte impegno sociale e politico.
Addirittura Russo si spinse a proporre un parallelo tra Panzini e Luigi Pirandello, paragone che a noi lettori moderni appare quasi blasfemo ma a quell'epoca era abituale per la critica, sostenendo che il favore dei “sopravissuti umanisti” era sempre andato all'arte “più ricca di gusto e di stile”, rispetto alla complessità ed alla sofferenza della produzione pirandelliana, dello scrittore di Bellaria, investito in quella circostanza dal Russo anche della carica simbolica di “ultimo dei petrarchisti”.