Ezio Giorgetti

giusto fra le nazioni

Ezio Giorgetti, Giusto nel Mondo

di Elisabetta Santandrea


Era il 17 giugno 1964 quando Ezio Giorgetti fu onorato in Israele con il titolo di 'Giusto fra le nazioni' presso l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, che dal 1953 è impegnato in un meticoloso lavoro di ricostruzione storica sugli eventi legati all'Olocausto, al fine di riconoscere e perpetuare la memoria di martiri ed eroi della Shoah. Il comm. Giorgetti, notissimo albergatore di successo, legato intimamente alla vita economica e mondana di Bellaria, fu il primo dei 295 'gentili' -ossia non ebrei- italiani ad essere invitato e onorato ad Israele col titolo di Giusto, onore riservato a tutte le persone che nel corso del secondo conflitto mondiale rischiarono la propria vita per salvare il popolo ebraico dalla minaccia nazifascista.
In questo senso, nonostante le leggi razziali emanate in Italia nel 1938 ed il ruolo svolto dalla Repubblica sociale di Mussolini nel sostegno alla persecuzione e deportazione degli ebrei e allo sterminio pianificato dal regime nazista, il contegno del popolo italiano fu nel suo complesso veramente esemplare. Molti, pur consci del pericolo cui si esponevano, salvarono la vita ad ebrei italiani e stranieri, dando rifugio, aiuto materiale e un impagabile sostegno morale. Oltre a figure simbolo della solidarietà del popolo italiano quali il questore di Fiume Giovanni Palatucci, il diplomatico Giorgio Perlasca e l'eroismo dimostrato dal paese di Nonantola (Modena), si contano centinaia di casi di uomini che con coraggio e spirito di abnegazione hanno cercato di dare una speranza concreta ai perseguitati, costituendo una invisibile rete di aiuti, in opposizione a una vera e propria 'geografia del terrore', rappresentata dalle centinaia di campi di internamento (200 solo in Italia) e di sterminio che i regimi totalitari avevano disseminato in tutta Europa. Fra questi uomini, appunto, il bellariese Ezio Giorgetti.

Gli ebrei a Bellaria Igea Marina: geografia di un salvataggio (1)

Era l'11 settembre 1943 quando da Asolo (Treviso), un gruppo di 27 ebrei giunse a Bellaria a bordo di un autocarro. Fuggiti da un campo di internamento civili, erano legati alla speranza di potersi spingere verso sud, vero e proprio lasciapassare per un sicuro ritorno in patria. Capo carismatico e guida del gruppo era l'avvocato Ziga Neumann, catturato nel 1941 a Zagabria dai tedeschi, internato nel campo di concentramento di Kerestinec, nei pressi di Zagabria, e da lì fuggito con la moglie, la figlia Maia e il genero Josef Konforti. Insieme ripararono a Spalato, sulla costa dalmaziana e da lì, il primo agosto del 1941, furono inviati con altri rifugiati ad Asolo. Dopo una breve tappa ad Adria, nel Polesine, la scelta di Bellaria quale destinazione del viaggio verso sud va ricondotta alle conoscenze personali di Clara Fieda, nobildonna di Asolo, nella cui villa Neumann e gli altri furono ospitati prima della partenza. La donna era cliente dell'hotel Miramare e amica di Piero Giorgetti, figlio del proprietario dell'hotel, al quale Clara indirizzò una lettera di presentazione del gruppo di ebrei, qualificandoli genericamente come 'profughi stranieri' e pregando lo stesso Piero di ospitarli per un breve periodo, giusto il tempo di farli organizzare per poi proseguire verso sud. L'hotel Miramare era in quei giorni pieno di sfollati, e il padre di Piero rifiutò di accogliere i 27 ebrei. “Dubito che il vecchio Giorgetti ci avrebbe accolti -dichiarerà poi Konforti- anche se avesse avuto camere libere. Era intelligente e capì subito che noi eravamo ospiti che potevamo metterli in pericolo”. L'albergatore si prese comunque il disturbo di trovare una sistemazione al gruppo, dirottandolo verso Rimini. Pochi minuti di viaggio e la comitiva incontrò Ezio, fratello di Piero e proprietario dell'hotel Savoia. Ezio aveva saputo del rifiuto del padre di ospitare i profughi e pensò bene di riportarli sui loro passi, dandogli ospitalità nel suo albergo. Poche battute fra i due fratelli, e la vicenda di quello che sarà il primo 'Giusto fra le nazioni' italiano ebbe inizio. “Li accolsi -ricorderà 21 anni dopo Ezio Giorgetti- e solo dopo qualche giorno, visti i vani tentativi di noleggiare una barca da pesca e di allontanarsi via mare, mi dichiararono di essere ebrei e di rimettersi nelle mie mani. Erano tutti vecchi, donne e bambini. Che avrei dovuto fare?” Così, da una decisione presa per motivi puramente economici, al fine di allungare la stagione lavorativa ormai agli sgoccioli con l'ingresso del folto gruppo di 27 ospiti, cominciò per la famiglia di Piero uno degli anni più avventurosi e rischiosi della loro vita, durante il quale Ezio diede prova di grande scaltrezza e sensibilità umana, accollandosi la totale responsabilità della vita del gruppo di fuggiaschi ebrei. Una prova di grande coraggio e umanità per la quale Giorgetti non ha mai mancato di minimizzare, come ricordano ancora oggi le figlie Maria Teresa e Giovanna, asserendo di avere fatto quello che chiunque altro si sarebbe sentito in dovere di fare.
Al gruppo di 27 persone ospiti al Savoia, si aggiunsero quasi subito altre tre persone, appartenenti alla famiglia Lackenback, anche essi vincolati da parentela al gruppo di ebrei; con loro, anche la famiglia Deutch, composta da quattro persone che rimasero al Savoia per un periodo brevissimo. Al Savoia la vita del gruppo di fuggiaschi si organizzò in maniera regolare, nonostante la gendarmeria tedesca avesse il proprio comando situato a 50 metri, presso l'albergo Milano. Pochi del gruppo di ebrei conoscevano la lingua italiana, per cui la maggior parte cercava di evitare contatti con il mondo esterno. L'esigenza più grande, andata a monte la possibilità di una fuga verso sud in tempi brevi, era quella di procurasi documenti falsi e di occultare accuratamente quelli autentici. Fu durante la permanenza al Savoia che avvenne l'incontro fra Josef Konforti e altre due persone che avranno un ruolo importantissimo nello svolgimento della vicenda. Il primo era Giuseppe Rubino, sfollato da Milano e originario di Barletta, che avrà un ruolo non indifferente nell'approvvigionamento del gruppo e nella falsificazione dei documenti. L'altro era il maresciallo dei carabinieri Osman Oscar Carugno, la cui irreprensibile condotta professionale ed umana gli ha concesso di essere a sua volta riconosciuto da Israele come Giusto nel 1986, successivamente a Giorgetti. Di lui ricorda Josef: “Carugno aiutò senza nessun compenso. All'inizio, come ci disse, compì il suo dovere, ma se ci avesse mandato fuori dalla zona di sua competenza, nessuno avrebbe potuto incolparlo di non aver comunque fatto il suo dovere, o di aver cooperato col nemico. Lui era un fedelissimo del Re ed eseguiva gli ordini senza esitare. Col tempo, fra lui e mio suocero si allacciò una vera amicizia. Il suo comportamento era da amico e non da uno che eseguiva ordini. Quando uscimmo dal territorio di sua competenza, lasciò tutto e venne ad aiutarci”.
Il trascorrere relativamente tranquillo della vita al Savoia fu interrotto però da un ordine del generale tedesco Kesselring. L'ordine era quello di evacuare le abitazioni situate sul litorale, al fine di costruire una linea difensiva ed adibire i locali dell'hotel ad alloggi per le truppe.
D'accordo con la famiglia Biribanti, Ezio organizzò il trasferimento del gruppo a Igea Marina, presso la pensione Esperia. La sicurezza degli ebrei fuggiaschi venne garantita da Ezio, da Carugno e, con loro, da persone che sapevano, ma non esitarono a 'coprirli'. Fra questi, anche il segretario del partito fascista, Mirko Mussoni.
All'Esperia, ancora privi di documenti, gli ebrei vissero per circa tre settimane, rimanendo a finestre chiuse durante il giorno, uscendo solo nelle ore di buio, al fine di rimanere il più possibile lontani da occhi indiscreti. Ebbero contatti anche con don Emilio Pasolini, emissario del vescovo di Rimini, mons. Vincenzo Scozzoli, che si prodigò a dar loro aiuto materiale (cibo e coperte) e soprattutto morale. Grazie alla cooperazione fra Ezio, Giuseppe Rubino (che procurò un timbro falso del comune di Barletta), il segretario comunale di San Mauro Pascoli Alfredo Giovannetti (che già si era prodigato per avere le carte annonarie per le razioni di generi alimentari) e il maresciallo Carugno, gli ebrei ebbero i loro documenti falsi. Incontrando però un problema: le carte d'identità erano state scritte da Gigi, il più piccolo dei fratelli Giorgetti, e quando il padre lo venne a sapere ordinò immediatamente di eliminare quei documenti, poiché non intendeva che un altro dei suoi figli si 'sporcasse le mani' con un lavoro da falsario. Le carte vennero così riscritte, con immensa fatica a causa della grafia e di un alfabeto così diverso dal loro, da Konforti e Hugo Schwarz, altro membro del gruppo. Risolto il problema dei documenti, si ripresentò nuovamente quello dell'alloggio. I tedeschi sequestrarono l'Esperia e Ezio fece trasferire quelli che forse ormai considerava come amici in una cascina della tenuta dei Torlonia, a San Mauro, nella zona dove la famiglia Giorgetti abitava durante il periodo invernale. A San Mauro, il gruppo riconquistò una certa libertà: pur mantenendosi restii a coltivare relazioni con l'esterno per ovvi motivi di sicurezza, avevano coi contadini del luogo relazioni cordiali, probabilmente facilitate anche dalla maggiore tranquillità della campagna rispetto a Bellaria, continuamente presidiata dai tedeschi. Durante la permanenza a San Mauro il gruppo infittì i suoi rapporti anche con un altro bellariese che, nonostante la sua appartenenza politica, non esitò ad aiutarli. Questi era il farmacista Giuseppe Olivi, che strinse una profonda amicizia con l'avvocato Neumann (2) e sostenne il gruppo nel bisogno di cure e medicinali. Il gruppo rimase alla tenuta fino a metà febbraio, quando a causa del sequestro imposto dai tedeschi, si rese necessario un nuovo trasloco. Ezio interpellò allora Alfonso “Cino” Petrucci, proprietario dell'hotel Italia di Bellaria, accordandosi per ospitare quegli ebrei che Carugno presentò a Petrucci come “suoi amici” e per i quali lo stesso Ezio si fece garante. Ai 30 ebrei del gruppo originario, dopo la partenza dei Deutch, si unì la famiglia Freilich, composta da quattro persone, cui se ne unirono in seguito altre tre. Il pericolo all'albergo Italia era costante. Infatti, lo stabile era una sorta di alloggio fisso per i tedeschi, i quali pretendevano ci fossero sempre stanze libere per loro eventuali esigenze. Le tensioni in questo senso furono notevoli e ripetute, soprattutto perché spesso il gruppo di ebrei si trovò a vivere fianco a fianco con le truppe tedesche. Questo fino a giugno del 1944, quando lo sfollamento venne imposto a tutti i bellariesi, a causa del procedere verso nord della linea del fronte. Nel nuovo trasferimento fu impegnato Carugno, che offrì la sua protezione, Petrucci, che collaborò in quanto sfollato, e ancora Ezio, che considerò la possibilità di consultare suo cugino, Giannetto Filippini. Giannetto mise a disposizione degli ebrei un mezzo di trasporto, dando alcune 'dritte' su alcune località del Montefeltro, dove poter trovare un rifugio sufficientemente ampio e sicuro per accogliere il gruppo. La scelta cadde su una villa appartenuta al parlamentare prefascista Angelo Bettelli, situata a Madonna di Pugliano Nuovo. Nella villa abitava la moglie di Bettelli, che non esitò ad accordare al gruppo il permesso di usufruire della sua abitazione che, isolata e lontana dalla linea del fronte, si presentava come soluzione ottimale. Fu Ezio ad accollarsi parte delle spese che gli ebrei dovettero affrontare nella loro permanenza a Pugliano, aiutato dal maresciallo Carugno, che garantiva continuamente la sua protezione facendo la spola fra Bellaria e la nuova residenza del gruppo, premurandosi con Ezio che tutto procedesse in estrema sicurezza. La nuova sistemazione coprì il periodo estivo, fino a quando i tedeschi, adocchiata la villa, pretesero di sequestrarla per farne un ospedale militare (cosa che in realtà non fecero, usando lo stabile come deposito munizioni).
L'ultima destinazione del gruppo di ebrei fu Pugliano Vecchio. La proposta di trasferirsi al paese venne dal signor Gabrielli, un abitante. Non esistendo edifici abbastanza grandi per ospitare un gruppo così numeroso, gli abitanti di Pugliano trovarono un'altra soluzione: ognuno mise a disposizione una stanza della propria casa, destinandola agli ebrei. Questi, commossi dal gesto di sincera generosità di quella gente, accettarono. Trascorse così l'ultimo periodo prima della liberazione da parte degli Alleati, in un clima che alternava periodi di relativa pace a periodi di estrema tensione, a causa dell'arrivo continuo di truppe tedesche in paese.
Intanto, sulla costa adriatica si vivevano i momenti più drammatici degli scontri: quella di Rimini, martoriata dai bombardamenti, è ancora oggi considerata dagli ufficiali inglesi, americani e tedeschi di allora, una delle battaglie più dure del secondo conflitto, alla stregua di El Alamein e Monte Cassino. Sicuramente, una delle battaglie in cui si verificò un'alta concentrazione di mezzi in un'area piuttosto limitata. 52 i bombardamenti solo a Bellaria, che devastarono la zona del porto, senza toccare uno solo degli obiettivi definiti, ma causando distruzione fine a se stessa.
Il 27 settembre 1944, in seguito alla liberazione di San Mauro Pascoli, Ezio Giorgetti fu contattato dagli Alleati. Gli fecero una domanda a bruciapelo su un gruppo di ebrei che lui aveva contribuito a salvare: volevano sapere dove erano nascosti, per prestare loro un definitivo soccorso. Questo testimoniava di come gli inglesi avessero seguito segretamente le mosse di quel 'piccolo' bellariese. (3) Da Pugliano, il gruppo di ebrei era intanto stato condotto a Pesaro, in un campo alleato, e da lì poi a Bari e finalmente in Israele. Ma prima della partenza definitiva, Josef Konforti chiese di poter incontrare il suo benefattore. Si rividero a Rimini, grazie alla Brigata Ebraica, raccontandosi gli avvenimenti degli ultimi mesi, dopo lo sfollamento. Tornarono insieme a Bellaria, per constatare i danni causati al Savoia e al paese. Poi si salutarono, ma non per l'ultima volta.

(1) Bibliografia del paragrafo: memoriali di Ziga Neumann (1963) e Josef Konforti (1995), conservati presso il Laboratorio di Documentazione e Ricerca sociale del Comune di Bellaria-Igea Marina; Foschi M., Da Burdunculum a Igea Marina, 1994; Lungo viaggio fra storia e memoria, Panozzo Editore, Rimini 2001; Tin bota… “le rondini tornano al nido”. I giorni della guerra, La Stamperia, Rimini 1995; Montemaggi A., Corriere della Sera, 27.07.1964; intervista dell'autore a Giovanna e Maria Teresa Giorgetti, 3 maggio 2002; www.storiaxxisecolo.it.


(2) Neumann affidò nel maggio del '44 ad Olivi una sorta di testamento spirituale, pregandolo di inviarlo ad un suo connazionale in Israele, qualora il gruppo non si fosse salvato. Il documento rimase in cassaforte fino alla morte di Olivi, quando ne entrò in possesso la figlia Laura. In partenza per un viaggio in Palestina nell'ottobre del 1993, Laura decide di portare la lettera con sé. Il caso vorrà che a Tel Aviv, la sua guida turistica sia il marito di una delle ebree salvate da Ezio, che Laura incontrerà proprio in quell'occasione. (Cfr.: Foschi M., Tin bota, pp. 105-6)

(3) A testimonianza di ciò, un'intervista ad un aviatore della Royal Air Force, Maurice Huish, da me effettuata nell'estate del 2002. Quando gli chiesi se era a conoscenza della presenza di ebrei a Bellaria Igea Marina, mi rispose così: “Sì, al Savoia, poi all'Esperia…erano gli ebrei salvati dal signor Ezio”.

La nomina di Giusto: l'iter e le motivazioni


Il 14 dicembre 1956 Ezio Giorgetti fu invitato dalla comunità israelitica a Roma per ritirare l'attestato di benemerenza per quanto fatto a favore del popolo ebraico. Dopo otto anni da quell'occasione, arrivò a Giorgetti un altro invito ufficiale direttamente da Israele. Egli vi si recò, rimanendovi una settimana, ed il 17 giugno venne onorato come 'Giusto fra le nazioni'. Gli venne inoltre conferita, il 14 giugno, la cittadinanza onoraria di Giv'at Shamuèl, piccola località situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, paese di residenza della famiglia di Konforti. Dalla metà degli anni '50, l'esistenza dell'albergatore bellariese, anche se a distanza, torna ad intrecciarsi con quelle di Neumann e Konforti e, con probabilità, anche con quelle di altri superstiti in grado di fornire la propria versione di quei fatti lontani, ma ancora vivi e indelebili nella loro memoria. E' lo stesso Josef Konforti, in un suo memoriale (pervenuto al Comune nel febbraio 1995 e oggi conservato presso il Laboratorio di documentazione e ricerca sociale) a fornire la sua versione dei fatti. “Un certo signor Hauser di Tel Aviv -scrive Konforti- militante nella Brigata Ebraica durante la guerra, nel 1963 decise di ripercorrere con la moglie l'itinerario fatto vent'anni prima con l'esercito degli Alleati. Incontrò quindi Ezio, che gli raccontò della relazione epistolare mantenuta con me e dell'aiuto prestato nel 1944 ad un'altra famiglia ebraica, prima che il fronte si spostasse verso nord. Hauser, tornato in Israele, si assunse il compito di raccogliere i dati sulle famiglie dei superstiti, al fine di cercare di ottenere per Ezio il titolo di “Chassid Haumot”, ossia Giusto del Mondo, onore concesso a tutti coloro che aiutarono gli ebrei durante l'Olocausto. Proprio in quegli anni l'Istituto israeliano Yad Vashem aveva cominciato a concedere questa onorificenza e a piantare alberi in nome dei 'Giusti del Mondo'. Hauser si rivolse a mio suocero (Ziga Neumann, ndr.) pregandolo di descrivere il ruolo svolto dagli italiani coinvolti nella vicenda”. Ma le regole seguite da Yad Vashem per il riconoscimento dei Giusti sono molto precise e fondate non solo sulla narrazione dei fatti, ma soprattutto sulla considerazione del valore che l'intervento dei 'gentili' ha assunto agli occhi di chi è stato salvato, secondo una precisa valutazione di intenti e di eventuali corrispettivi pagati per l'aiuto ricevuto. Difficile a posteriori definire se le persone interessate aiutarono spinte da puri motivi umanitari o più per motivazioni ideologiche, economiche o politiche. E' ancora Konforti che parla: “Non si può dare una risposta precisa, ma in quei giorni la motivazione non era importante. E' certo che Ezio all'inizio vide in noi 27 ospiti per il suo albergo. Il nostro soggiorno si prolungò e con l'aiuto di Ezio, per consiglio del maresciallo Carugno cambiammo i nostri alloggi. Dal Savoia passammo all'Esperia, da lì a Tenuta, poi all'albergo Italia di Petrucci. Da Bellaria a Pugliano Nuovo ed infine a Pugliano Vecchio. Fino a questa ultima destinazione, ci aiutò Ezio. Suo padre era contrario al fatto che lui si 'sporcasse le mani' per noi; più volte si intromise e gli ordinò di liberarsi di noi”. Ed è ancora Josef a sottolineare che spesso Ezio si accollò anche le spese di vitto e alloggio di molti di loro, e che se qualcosa ricevette in cambio, non era comunque proporzionato al pericolo che lui correva quotidianamente proteggendoli. Il rispetto e la riconoscenza che Neumann e Konforti hanno riservato a Ezio (e alla moglie Libia, che “verso la metà degli anni '70 -ricordano le figlie-andò con la parrocchia di San Mauro ad Israele e venne accolta con gli onori che si riservano ad un ministro”) sono di fatto estesi a tutta la comunità bellariese, cui i due ebrei hanno in più occasioni riconosciuto meriti di accoglienza e umanità.
Anche il maresciallo Osman Oscar Carugno venne onorato con lo stesso titolo nel 1986, purtroppo successivamente alla sua morte. Questo per una sorta di 'errore' commesso da Josef. “Quando il signor Hauser si rivolse a mio suocero, io avevo capito che l'onorificenza potesse essere concessa solo ad una persona per un gruppo aiutato. Così mi concentrai solo sulla candidatura di Ezio, e non raccontai in quell'occasione i particolari dell'aiuto che ci fornì anche Carugno”.


Gli ebrei di Ezio Giorgetti. (4)


Il gruppo partito da Asolo l'8 settembre 1943 era composto da 18 persone, quasi tutte vincolate da parentela. Capo e guida del gruppo era l'avvocato di Zagabria Ziga Neumann, con lui: la moglie Bela Schwartz, la figlia Maja, il genero Josef Konforti, Blanka, madre di Josef, Adolf Neumann, padre di Ziga, Daniza Neumann in Rothmiller, sorella di Ziga, Rutitza e Eli Rothmiller, figli di Daniza, Egon Schwartz, fratello di Bela, sua moglie Zdanka, le due sorelle Stepha e Arnitza Schwartz, zie di Zdanka, Umitza Hirschel, madre di Stepha e Arnitza, Ruben Marton, figlio di Arnitza. A questo nucleo familiare allargato si aggiunsero: il profugo viennese e non ebreo Leopold Studeny, sua moglie Charlotte, profuga di Saar, e Wilhelm Pick, profugo viennese ebreo e battezzato.

A Adria, si unirono al gruppo di Neumann altre 9 persone, partite in precedenza da Asolo per ricongiungersi a Adria con alcuni parenti. Il gruppo era così formato: Hugo Schwartz, fratello minore di Bela e quindi cognato di Ziga Neumann, sua moglie Zwieta Hirschel, i loro figli Mia e Leopold, Jeiljko Nasdi, cognato di Hugo, Ljerka Hirschel, sorella minore di Zwieta e moglie di Jeiljko, il loro figlio Aiwitza, Mirko Hirschel, fratello di Zwieta e Ljerka, e sua moglie Neza.
Ad Adria non trovarono i parenti cercati. Il gruppo, formato complessivamente da 27 persone, giunse l'11 settembre 1943 a Bellaria, dove dopo pochi giorni di permanenza al Savoia si ricongiunse ai parenti cercati ad Adria. Questi erano tre membri della famiglia Lackenback, ossia il signor Lackenback, cognato di Zwieta, sua sorella e sua moglie Blanda Hirschel, sorella di Zwieta.

Queste furono le 30 persone che trascorsero insieme un intero anno, dal settembre del 1943 fino all'ottobre del 1944, e che riuscirono a guadagnare nuovamente la libertà grazie al prezioso sostegno di Giorgetti. All'albergo Savoia si aggiunsero per un breve periodo quattro membri della famiglia Deutch (5) , che in seguito riuscirono probabilmente ad oltrepassare il confine svizzero, mentre all'hotel Italia di Petrucci si unì la famiglia Freilich, composta anch'essa da quattro persone (il signor Freilich, sua sorella -che morì e fu seppellita nel cimitero di Bellaria sotto falso nome- suo figlio Franco e una seconda sorella minore di Freilich, che arrivò da Firenze dove pare abitasse, portando con sé altri tre membri della stessa famiglia). Anche i Freilich rimasero a Bellaria per un periodo breve. Scomparvero, probabilmente tornarono ad abitare a Firenze e di loro non si ebbero più notizie.

(4) Ricostruzione basata sulla confronto di due elenchi allegati al memoriale di Josef Konforti. In essi, i nomi compaiono spesso con grafie differenti. Sono state scelte le forme più ricorrenti o comunque ipoteticamente vicine alla dizione slava.

(5) Forse quelli che partirono alla volta di Brescia dopo un breve periodo di permanenza a Bellaria (cfr. Foschi, M., Da Burdunculum a Igea Marina, 1994, p. 137 e Id., Lungo viaggio fra storia e memoria, Panozzo Editore, Rimini 2001, p. 180). Bisogna considerare che le dichiarazioni di Neumann e Konforti non collimano con quanto si rileva nella bibliografia esistente, in cui è più volte riportato che gli ebrei partiti da Asolo e poi giunti al Savoia erano 38 (Cfr. Montemaggi A., Corriere della Sera, 27.07.1964 e lo stesso Mario Foschi).

Che cos'è Yad Vashem (6)


L'istituto israeliano Yad Vashem (letteralmente: 'nome perpetuo', cfr. Isaia 56, 5) è nato nel 1953 come suprema autorità impegnata nel riconoscimento e nella commemorazione di martiri ed eroi dell'Olocausto. L'idea di creare un'autorità preposta alla perpetuazione della memoria dei sei milioni di ebrei vittime dei nazifascisti, nasce già durante la seconda guerra mondiale, in seguito all'ufficializzazione delle prime notizie concernenti gli eccidi perpetrati negli stati occupati dai tedeschi. Fu nel 1942 che Mordecai Shenhavi, membro del Kibbutz Mishmar ha-Emek, avanzò tale proposta, presentata ufficialmente all'Istituto Ebraico Nazionale di Gerusalemme il 2 maggio del 1945. Dal '45 al '53 la proposta di Shenhavi seguì un complesso iter burocratico, che condurrà nel 1946 alla fondazione del primo nucleo di Yad Vashem a Gerusalemme, e alla definitiva e unanime approvazione, avvenuta nell'estate del 1953 da parte del parlamento israeliano, del disegno di legge riguardante l'istituzione di un'autorità preposta ad individuare ed onorare i martiri ed eroi dell'Olocausto, fra questi anche i cosiddetti “Giusti fra le nazioni”, vale a dire tutti quei 'gentili' -ossia non ebrei- che hanno rischiato la loro vita per salvare il popolo ebraico. Dal 1963 ad oggi, i Giusti riconosciuti da Israele sono oltre 19.000, fra cui circa 295 italiani. I loro nomi compaiono sul Muro dell'Onore nel Giardino dei Giusti presso la fondazione Yad Vashem, prassi che ha sostituito la piantumazione di alberi, ormai sospesa per mancanza di spazio. L'iter attraverso il quale la commissione responsabile -sottoposta alla suprema Corte di giustizia israeliana- perviene al conferimento di tale titolo, è regolato da criteri e studi meticolosi operati su documentazioni pertinenti, soprattutto le testimonianze di sopravvissuti ed altri testimoni oculari. Al fine di pervenire ad una corretta valutazione degli eventi, la commissione prende in considerazione alcuni aspetti particolari delle vicende, quali il modo in cui è avvenuto il primo contatto fra i sopravvissuti e i loro salvatori, le motivazioni che hanno spinto a fornire appoggio agli ebrei, i pericoli conseguentemente corsi, eventuali corrispettivi ricevuti dai 'gentili' per l'aiuto concesso e una descrizione della natura del soccorso dal punto di vista di chi è stato salvato. A queste valutazioni si aggiungono quelle relative a tutta la documentazione pertinente che permetta di far luce sull'autenticità ed unicità della vicenda considerata. Solo quando i dati alla mano mostrano chiaramente i rischi corsi e la gratuità dell'intervento, colui che ha fornito aiuto è qualificabile come possibile Giusto. Yad Vashem è oggi un'istituzione complessa, formata da una serie di canali importanti: l'archivio, composto da 58 milioni di pagine documentarie e oltre 100.000 immagini, la rivista 'Yad Vashem Studies', la biblioteca -una delle più significative al mondo per quel che concerne l'esperienza della Shoah, comprensiva di 87.000 titoli-, il museo storico e quello delle arti, l'istituto e la scuola internazionale di ricerca e studio sull'Olocausto, l'enciclopedia storico-geografica delle comunità giudaiche distrutte o danneggiate dal regime nazista.
(Cfr.: www.yad-vashem.org.il)

(6) Il paragrafo è un sunto delle informazioni complete che si trovano nel sito ufficiale in lingua inglese di Yad Vashem. Trad. dall'inglese dell'autore.



DICHIARAZIONE di Ziga Neumann (7) circa gli avvenimenti degli anni 1943-44, certificata in data 24 settembre 1963 nell'ufficio del notaio Dr. Yoel Rosenberger, al n. 4 di Rothschild Boulevard a Tel Aviv.

Io sottoscritto, Dott. Ziga Neumann, avvocato esercitante al n. 4 di Rothschild Boulevard di Tel Aviv, Israele, residente a Giv'at Shmuèl, nei pressi di Tel Aviv, possessore della carta d'identità n. 150364, dopo aver appreso il mio dovere di narrare la verità e che sarò passibile di giudizio sulla base della legge penale dello stato di Israele qualora io giurassi il falso, dichiaro solennemente quanto segue:
1. Prima dell'invasione della Yugoslavia, nell'aprile del 1941, vivevo con la mia famiglia a Zagabria (Yugoslavia). Per un certo tempo, prima della suddetta data, ho praticato la mia professione in qualità di avvocato indipendente. Il mio ufficio era situato al n. 8 di via Masaryk, e la mia residenza privata al n. 108 di via Koshinsky.
2. Mi sono avvicinato al movimento sionista quando ero un giovane studente e sono stato membro attivo della locale Organizzazione Sionista fin dalla sua istituzione. Per anni fui membro del comitato esecutivo della Land Organisation e capo dell'ufficio centrale del Jewish Foundation Fund di Zagabria. Inoltre, ero in rapporto con altri uffici pubblici della comunità ebraica in Yugoslavia.
3. Subito dopo l'ingresso a Zagabria delle truppe tedesche e la conseguente proclamazione del cosiddetto Stato Croato Indipendente, nell'aprile del 1941 fui arrestato assieme alla maggioranza degli avvocati ebrei e serbi della città. Dopo aver trascorso 3 giorni nella prigione di polizia, fui portato al campo di concentramento, appena istituito, del villaggio di Kerestinec, non lontano da Zagabria. Per una circostanza fortuita venni liberato per un paio di giorni e utilizzai questo breve intervallo di tempo per fuggire da Zagabria con mia moglie, mio genero e mia figlia utilizzando documenti falsificati. Riuscimmo, in seguito ad un passaggio difficile e pericoloso, a raggiungere Spalato, sulla costa dalmaziana, il primo agosto 1941. La città era al tempo occupata dagli italiani. Da lì venimmo trasferiti in Italia insieme ad un altro gruppo di rifugiati ebrei, poi fummo destinati ad Asolo, in provincia di Treviso, come internati civili di guerra distinti con il termine 'ebrei', subordinati ad un rigido controllo da parte della polizia italiana. Qui rimanemmo fino al settembre del 1943, quindi fino alla capitolazione dell'Italia. L'occupazione dell'intera provincia da parte dei tedeschi, l'arresto di tutti gli ebrei e il trasferimento nei campi di concentramento di Hitler erano imminenti. Dovevamo scappare, e lasciammo il villaggio l'11 settembre dello stesso anno. C'erano decine di famiglie ebraiche di rifugiati e fra questi anche mio padre, mia sorella ed altri parenti. Dopo molte e insormontabili difficoltà, riuscimmo a fuggire fino a Bellaria, sulla costa adriatica nei pressi di Rimini.
4. Il destino ci riservò la fortuna di incontrare, fra i primi in questa zona, un uomo originario di San Mauro Pascoli, Ezio Giorgetti, proprietario di una pensione che in quel periodo dell'anno era già chiusa. Eravamo circa in 30. Capì che eravamo rifugiati e noi gli nascondemmo che eravamo tutti ebrei. Ci aprì la pensione nonostante l'enorme lavoro e le spese che ciò comportava, non fece mai cenno al pericolo a cui si esponeva dinanzi all'avanzata delle truppe tedesche. L'uomo -da qui mi riferirò a lui chiamandolo con il suo nome, Ezio- diede prova d'essere persona di carattere nobile, altruista e d'orientamento sociale e politico di stampo liberale. Divenimmo veri amici. Ezio si preoccupò di tutto: viveri e sicurezza. Dopo l'occupazione del luogo da parte dei tedeschi ed il loro ordine di evacuare l'intero quartiere dove la pensione era situata, Ezio cercò per noi un altro rifugio e organizzò il trasferimento in un altro luogo del paese, questo con tutti i rischi che ciò comportava. Quando anche lì successe la stessa cosa, Ezio si recò in un villaggio nelle vicinanze e trovò una grande fattoria sulle colline, sopra la città di Pesaro, in un piccolo paese chiamato Pugliano Nuovo. Fu Ezio ad assumere tutti gli obblighi finanziari del nostro vitto e alloggio verso i proprietari della fattoria. Senza il suo aiuto e il suo coraggio non saremmo stati in grado di rifugiarci in quel posto. Dopo qualche tempo i tedeschi ordinarono lo sgombero per adibire la fattoria ad ospedale militare e così dovemmo di nuovo fuggire dai nazisti. Fu ancora una volta Ezio ad aiutarci e a salvare le nostre vite. Usò i buoni rapporti che aveva con alcuni contadini in collina per renderci accetti e concederci di abitare nel piccolo e remoto villaggio di Pugliano Vecchio. Là rimanemmo fino al settembre del 1944, quando le truppe alleate liberarono l'area, e noi potemmo trasferirci dalle colline a Pesaro, dove ci accolsero gli alleati lì stazionati.
5. Durante tutto questo periodo Ezio fu sempre disponibile per un aiuto consultivo e attivo. Nonostante i rigidi controlli dei tedeschi, non mancò di farci visita anche durante la nostra permanenza in luoghi distanti situati in collina, e si preoccupò sempre di tutto. Era di vedute apertamente antifasciste e mantenne stretti contatti con elementi antifascisti nella piccola Repubblica di San Marino. Usò questi contatti per assicurare la nostra fuga nella Repubblica, qualora non fosse riuscita per altre vie.
6. Non avevamo altri documenti identificativi se non quelli italiani falsificati. La nostra vera identità era celata in ogni nostro contatto diretto con le autorità. La maggior parte di noi non parlava italiano, e i pochi che erano in grado mantenevano comunque un palese accento straniero. Quindi, anche per questo fu Ezio a mantenere i contatti, evitando di farci avere rapporti diretti con le autorità.

Per aiutarci, Ezio trascurò i suoi interessi personali, subordinò i suoi impegni di lavoro e la cura della sua stessa famiglia.
Non esagero i fatti, ma racconto la semplice verità a nome di tutto il gruppo, inclusi la mia famiglia ed i miei genitori, salvati dalle mani dei nazisti grazie all'aiuto, alla devozione e al sacrificio personale di Ezio.

Dichiaro che questo è il mio nome e che tutte le dichiarazioni riportate sono vere.

Dott. Ziga Neumann

(7) Trad. dall'inglese dell'autore.



Da un'intervista a Giovanna e Maria Teresa Giorgetti, 3 maggio 2002

Un camion carico di rifugiati che si ferma sulla spiaggia di Bellaria. Due signori con lunghi cappotti scuri scendono. Frammenti di ricordi di un lontano settembre del 1943, che paiono quasi fotogrammi rubati al fascino di una vecchia pellicola. La memoria a cui riaffiorano queste immagini è quella di Maria Teresa Giorgetti, che ripercorre l'esperienza del padre Ezio non solo sull'ondata dei racconti altrui, ma arricchendola di un punto di vista diverso, che solo la sensibilità tipica di un bambino può generare. Maria Teresa nel 1943 aveva sette anni, sua sorella Giovanna appena due. “Gli ebrei che mio padre ospitò al Savoia -esordisce Maria Teresa- erano tutti slavi. Ricordo che i bambini erano 5-6 in tutto. Parlavano correttamente l'italiano e insieme a loro partecipavo alle lezioni di inglese che teneva Maja, moglie di Joseph Konforti. Le donne erano tutte molto raccolte, distinte, non parlavano, anche perché non sapevano quasi nulla di italiano. In generale, ho il ricordo di persone che, per racimolare qualche soldo, si arrangiavano a fare di tutto: in particolare, mi è rimasto impresso un signore, credo fosse un ingegnere, che rammendava calze da donna”. I contatti che le figlie di Ezio ebbero con il gruppo di profughi ebrei, furono comunque molto limitati. “Finita la stagione estiva -prosegue Maria Teresa- ci trasferimmo a San Mauro. Nostro padre ci teneva a casa, separandoci dal gruppo di ebrei per tenerci al sicuro. Ricordo di essere andata una sola volta con il babbo, la mamma e loro in una chiesa, ma ho ricordi vaghi”. Ma anche la casa di San Mauro divenne ben presto un punto di riferimento, anche se sporadicamente, per i rifugiati. Impressa nella memoria di Maria Teresa è una donna “fuggita dal campo di concentramento di Mathausen, dove aveva tentato il suicidio tagliandosi le vene. Successivamente fu ospitato dalla mamma nella casa di San Mauro un ragazzo, probabilmente fratello della donna. Si chiamava Franz ed era di nazionalità tedesca o austriaca. Avrà avuto 19-20 anni, era il classico tipo dai modi un po' tedeschi un po' inglesi, fumava la pipa e si distingueva molto fra noi, sia per l'aspetto, poiché era alto, biondo con gli occhi azzurri, sia per il modo di vestire. In paese andava in giro tranquillamente, tanto che forse tutti si chiesero chi fosse, così diverso dagli altri. Il babbo, quando se ne accorse, lo rispedì subito alla casa dello zio Giannetto (Filippini, ndr.) verso Montefiore Conca, perché era un pericolo che qualcuno andasse in giro così liberamente”. Di quel padre coraggioso, determinato e caparbio, Maria Teresa e Giovanna tracciano, con una punta d'orgoglio, un ritratto fatto di poche, significative parole. “Nostro padre era all'epoca poco più che trentenne. Il suo coinvolgimento umano fu totale, anche se ritenne sempre di aver ricevuto troppi onori per quello che fece”. Anche perché Ezio non fu mai solo: furono in tanti a coprirlo, anche gli stessi esponenti del Pnf locale, ad aiutarlo concretamente senza mai tradire la sua fiducia e la sua ferrea volontà di proteggere il gruppo di fuggiaschi. Senza dimenticare la figura di Libia, moglie e madre esemplare. “Per mettere al sicuro il gruppo di ebrei -ricordano le figlie- una volta nostro padre si imbatté in un bombardamento. In quell'occasione nostra madre gli disse 'ci vuoi far morire tutti', ma nonostante i suoi timori aiutò il gruppo di ebrei forse tanto quanto lui”. Giovanna rievoca il noto episodio dell'incontro di Libia, che stava trasportando a San Mauro i veri documenti di identità dei rifugiati, con alcuni soldati tedeschi ad un posto di blocco nei pressi del cimitero di Bellaria. Attimi di panico, in cui i pericoli che quotidianamente la famiglia correva al fine di proteggere i fuggiaschi apparivano quanto mai tangibili, con tutto il loro carico di possibili, tragiche conseguenze. Tanto che anche Libia venne invitata, nel giugno del 1964, a recarsi in Israele per accompagnare il marito Ezio, in quello che probabilmente è stato il viaggio più significativo ed emozionante della sua vita. “La mamma alla fine non andò -puntualizzano con rammarico Maria Teresa e Giovanna- perché si era ad inizio stagione, e per lei fu impossibile lasciare l'albergo”. I ricordi delle figlie si spostano così agli anni successivi alla fine della guerra, quando, lentamente, con tanto lavoro e fatica, tutto tornò alla normalità. “Per molto tempo del gruppo di ebrei non se ne seppe più niente. Poi, di tutti, si ricordarono di Ezio Ziga Neumann, l'avvocato capo carismatico del gruppo, e il suo genero Josef Konforti. Con loro anche la famiglia di Hugo Schwartz, emigrata negli Stati Uniti, la quale donò a nostro padre una preziosa bibbia in ebraico. In particolare, con Josef abbiamo tenuto corrispondenza regolare (di cui restano alla famiglia due lettere risalenti agli anni '50) e i suoi rapporti con nostro padre proseguirono anche dopo il suo ritorno in patria. Diventarono rapporti anche di lavoro, economici, tanto che Ezio propose più di una volta a Josef di trasferirsi qua per lavorare assieme. Purtroppo, oltre ai contatti con Konforti non abbiamo mantenuto rapporti particolari con le istituzioni”. Solo due le occasioni in cui Maria Teresa e il marito hanno colto l'invito dell'ambasciata di Roma, a partecipare alle celebrazioni commemorative ad Alfonsine, dove si trova un cimitero ebraico. E, in mancanza di occasioni ufficiali, ci ha messo lo zampino il caso, per riportare le figlie sulle 'orme' del padre nel corso di una 'gita di piacere' in collina. “E' successo di recente un fatto curioso -spiega Giovanna- nel corso di una passeggiata nei pressi di Pugliano. Ci siamo imbattute per caso in un fabbricato strano, Maria Teresa è scesa per chiedere informazioni e ha scoperto che si trattava dell'ex villa in cui Ezio fece rifugiare gli ebrei”. Oggi, la villa di Madonna di Pugliano che fu dell'on. Angelo Bettelli, è l'elegante hotel ristorante Villa Labor. Una scoperta casuale, che ha acquisito per le figlie del primo 'Giusto nel mondo' italiano un affascinante senso di perpetuazione di eventi e volti, il cui ricordo è intimamente legato alla coscienza dell'alto valore di reale e disinteressata solidarietà umana che la vicenda di Giorgetti ha rappresentato.


…qualche “errore”.

Sulla base di un primo confronto fra le fonti informative attendibili attualmente a disposizione, la difficoltà maggiore è pervenire ad una corretta ricostruzione del numero e dei nominativi degli ebrei coinvolti nel complesso processo di salvataggio, attuato da Ezio Giorgetti. Ponendo come obiettivo primario la ricostruzione dell'iter burocratico che ha condotto alla nomina di Giorgetti quale 'Giusto fra le nazioni', le fonti maggiormente attendibili -poiché, con tutta probabilità, considerate tali anche dall'istituto Yad Vashem e dall'intera comunità israelitica- sono la solenne dichiarazione ufficiale di Ziga Neumann, datata 24 settembre 1963 ed il memoriale del genero Josef Konforti, tradotto dall'ebraico in lingua italiana e pervenuto al Comune di Bellaria Igea Marina nel febbraio 1995, in seguito ad un'esplicita richiesta dell'allora sindaco Ferdinando Fabbri. Dalle dichiarazioni di Neumann e Konforti si rileva che gli ebrei coinvolti nel salvataggio di Ezio erano una trentina: 27 partiti da Asolo, ricongiuntisi a Bellaria con un nucleo familiare composto da 3 persone. Tale gruppo, sulla base del memoriale di Konforti, risulta invariato fino al settembre 1944. E' indubbio che nel corso dei mesi e dei continui spostamenti il gruppo si sia di volta in volta arricchito di altre presenze, come testimoniato dallo stesso Konforti, e che nel 1944 Ezio si sia reso partecipe di un nuovo salvataggio, che interessò una famiglia ebrea composta di 4 membri ed estranea al gruppo stesso: questo non giustifica comunque l'errore di ricostruzioni, o le semplici approssimazioni, che si rilevano in parti di pubblicazioni e articoli di giornale inerenti la vicenda. A titolo esemplificativo, sia nell'articolo a firma di Amedeo Montemaggi, apparso sul Corriere della Sera il 27.07.1964, sia in entrambe le pubblicazioni di Mario Foschi (8) il gruppo di profughi ebrei giunti da Asolo è individuato come composto da 38 persone. Impossibile che tale numero sia scaturito da un'analisi delle fonti documentarie lasciate da Neumann e Konforti. Il primo indica la presenza, nel campo internati civili di Asolo, di “tens of Jewish Refugee families”, ossia “decine di famiglie di rifugiati ebrei” e ancora “we were about 30 people assembled there” (“eravamo un gruppo di circa 30 persone”), in riferimento al numero di rifugiati che trovarono asilo presso l'albergo Savoia di Ezio Giorgetti. Konforti opera a sua volta una minuta ricostruzione di eventi e nomi che confermano e precisano quanto dichiarato da Neumann.
Altre curiosità: Josef Konforti, genero di Neumann in quanto marito della figlia Maja, diviene 'cognato' nell'articolo di Montemaggi per una probabile semplice svista di traduzione del termine “son-in-law”, presente nella suddetta dichiarazione ufficiale sottoscritta da Ziga Neumann, e diviene addirittura 'nipote' nelle pubblicazioni di Foschi, dove si legge appunto 'il nipote dottor Bukj' (Bukj era il nome con cui Josef Konforti era familiarmente chiamato).
Altra dichiarazione che si presta ad ulteriori precisazioni e ricostruzioni storiche è quella che si rileva in un articolo apparso sul Resto del Carlino del 5.04.1994, a firma Franco Cicognani e Mario Gradara, in cui si legge “e in particolar modo da Leopold Studeny che inviò, il 20 luglio 1945, una lettera al Comando dei Carabinieri di Roma per testimoniare dell'eroismo e dell'alta solidarietà umana dei due albergatori bellariesi (Giorgetti e Petrucci), sia del Maresciallo Carugno”. Nel memoriale di Konforti si legge: “Dopo la guerra ho sentito che il Maresciallo aveva avuto delle noie durante il servizio. Dicevano che era stato accusato di collaborazione con i fascisti. Appena arrivato in Palestina, ho subito scritto all'Alto comando dei carabinieri a Roma. Non sapevo l'indirizzo esatto, ma scrissi lo stesso. Non so se la mia lettera è servita, ma ho saputo che il Maresciallo Carugno ne uscì innocente”. Considerando ipoteticamente attendibili entrambe le testimonianze, è plausibile l'idea che anche Studeny, se ha realmente anch'egli scritto, possa averlo fatto principalmente per lo stesso motivo indicato da Konforti, e in questo caso la menzione dei due albergatori da parte del profugo viennese potrebbe essere mero completamento della sua testimonianza a difesa del Maresciallo Carugno.

(8) Foschi M., Da Burdunculum a Igea Marina, 1994, p. 137 e Lungo viaggio fra storia e memoria, Panozzo Editore, Rimini 2001, p. 180.